Fugit in vincit amor. In amor vince chi fugge

Soffrire per amore: dalle normali paure alle pericolose angosce autodistruttive

Normali paure, sì! Perchè così è: se non si vive un minimo di turbamento, di timore che il partner possa non essere con te, tanto e come nei momenti più belli, adesso che ne hai bisogno come l’aria che respiri…non è amore!

Escludendo il dignitoso e tenero sentimento in terza età avanzata, amore, in un rapporto di coppia, è sinonimo di passione, il quale termine ha come radice linguistica: “pathos” che troviamo anche in “patire”, soffrire.

Quante volte la letteratura ha definito come follia questo sentimento che spaventa, molto spesso, sia chi lo sta vivendo, sia chi osserva la persona amica, innamorata, così confusa e sconvolta, non più capace di seguire consigli ragionevoli, per il suo bene.

Nello stesso tempo, nonostante le paure, le sofferenze, come scrive E.Tribulato: “…questa è un malattia da cui pochi vorrebbero guarire”.

Ecco, questa è la domanda fondamentale, cui è interessante rispondere: quando, in psicologia, un sentimento così scioccante, arriva a trasformarsi da emozione positiva e sana, in un sintomo, in una patologia da curare? 

Cominciamo a dire che per psicologia delle emozioni, un problema è sempre quantitativo e soggettivo: quella attesa dell’amato che per una persona è definibile come trepidazione e desiderio, per un’altra è fonte di emotività in eccesso, ansia, fino ad arrivare, in certi casi a un ‘angoscia autodistruttiva.

Può accadere a qualsiasi soggetto “innamorato”, una volta ogni tanto, di vivere una crisi di angoscia,  che però non va a intaccare in modo significativo le altre aree della vita, come per esempio il lavoro, che non porta la persona all’utilizzo di farmaci o sostanze per anestetizzare la sofferenza, che dura un tempo non eccessivo.

In questi caso vista la non rilevanza della frequenza delle crisi, dell’intensità, della pervasivisità (azione su altri contesti), la persona che soffre per amore, non si definisce lei stessa “malata”, non cerca psicologi o medici, semmai si affida a letture, allo yoga e pratiche olistiche, oppure ancora alla frequentazione di corsi per capirsi e potenziarsi.

A differenza di questa flessibilità nelle esperienze dolorose di coppia, si riconoscono tratti di disagio, cui porre attenzione, quando scattano dinamiche più “rigide”, dove c’è accanimento sia nel rapporto con l’altro che con se stessi. 

Si può anche parlare come ci insegna la Psicologia Analogica di “tensione emozionale”, come emozione legata al desiderio: mi manchi, soffro, ma il mio patire mi porta a una condizione di “eu-stress” di stress sano, adattivo, che mi orienta all’azione.

In questo primo caso potrei cavalcare l‘apprensione che vivo, utilizzando l’energia in eccesso che avverto per rendermi più desiderabile esteticamente, facendo sport o altre attività.

Si parla invece di “tensione ansiosa”, quando il soggetto non è più in grado di controllare l’agitazione, e, passaggio mentale cruciale, inizia a sentirsi strano, perchè non ritiene ragionevole questo stress eccessivo, che prenderà il nome di “di-stress” o stress disadattavo e spesso angosciante.

In questo secondo caso la persona, commuta la causa della sofferenza, da: l’altro o l’amore mi fa soffrire a: io stesso sono causa della mia soffernza, perché sono sbagliato nel mio profondo.

In altri termini, la presa atto che anche altre persone che conosco, hanno avuto crisi nelle relazioni amorose, ma le gestivano meglio di me, riuscivano a reagire, perchè io non ce la sto facendo? 

Forse perchè ho ereditato geneticamente da un genitore, il gene dell’inlelicità, della vulnerabilità emotiva, della debolezza e, quindi, alla fine, dell’incapacità nei rapporti sentimentali affettivi? 

Forse perché avevano ragione i genitori stessi, quando sottolineavano a me, figlia femmina, di essere troppo “maschiaccio” ovvero incapace di manifestare l’opportunità femminilità, o a me, figlio maschio, di “non avere le palle”, ovvero le capacità a mantenere un rapporto di coppia che si possa definire tale?

Queste sono solo due, ma molto frequenti, dubbi che albergano, insieme ad altri, nell’ inconscio di chi soffre in eccesso per amore, meccanismi del pensiero che tendono a sfociare, se non presi di petto e risolti, in rimurginazioni mentali ossessive, nonchè condotte comportamentali compulsive, pensiamo alle abbuffate di cibo, per tentare di anestetizzare l’ansia che ne deriva.  

Infatti, se i genitori sono stati in grado di soddisfare i bisogni di sicurezza e di autonomia in modo coerente e continuo, il bambino, e l’adulto poi, consoliderà un assetto emotivo e cognitivo sano.

Se, d’altro canto, i genitori si mostrano iperprotettivi, ciò potenzia invece il messaggio che “essere dipendenti è l’unico modo per mantenere un legame e, invece, individuarsi, crescere a rendersi autonomi significa perdere l’amore materno”. Così che il bambino prima e l’adulto poi, rinunciano all’autonomia affidandosi agli altri per ogni difficoltà. Si sviluppa così un’attesa e una ricerca esterna di qualcuno che offra quella sicurezza e sostegno di cui si sente il bisogno intenso (Lingiardi, 2005). Nelle famiglie soffocanti e iperprotettive viene trasmessa l’idea che il mondo è pericoloso e che, senza il proprio nido sicuro familiare, non si sopravvive. La persona dipendente fa propria l’idea di essere fragile e di non potercela fare da sola. Se, al contrario, i genitori non instaurano alcun legame autenticamente affettivo, si cercherà disperatamente qualcuno che dia, invece, l’affetto e accudimento di cui si sente il bisogno.

Esisto solo se c’è l’altro.

Quali sono le carenze nella mia personalità che l’altro soddisfa? SIGILLI

La tradizione popolare, a partire dal detto latino: “Fugit in vincit amor” (in amor vince chi fugge) 

in generale, piuttosto che cercare confini netti fra esperienze normali e patologiche verranno indicati elementi di patologicità. Fra questi una particolare enfasi verrà fatta sulla flessibilità (normale) e una (potenzialmente patologica) rigidità di certe esperienze.

l o la patologia dell’innamoramento; zola gelosia patologica; 3ola malinconia amorosa.

E ancora l’abnorme persistenza e incoercibilità del- l’ondata idealizzatoria. Inoltre, fin dalle prime battu- te, è presente in entrambi i casi una netta tendenza ad evitare il confronto fra alcune idee (particolar- mente sostanziali allo stato passionale) e la realtà

ma allora vengono adottati test di realtà non ap- propriati, oppure l’attenzione viene centrata solo su alcuni dati che confermano l’idea delirante, ignoran- do tutti gli altri 

È il momento in cui ci sorprendiamo per com’è davvero questa persona. Iniziamo anche ad arrabbiarci per quello che prima tolleravamo. La delusione può essere un colpo così forte che la relazione può perdere forza e iniziare una discesa inarrestabile. Per questo, dobbiamo essere coscienti di questi autoinganni e sforzarci di riconoscerli prima di cadere nella trappola.

La domanda fondamentale da farsi, per Nardone, non è «mi ama ancora?», perché questo è delegare mentre bisogna, invece, fare i conti solo con se stessi. Nemmeno domandandosi «amo ancora?», bensì «posso farne a meno?». L’interrogativo corretto apre scenari il più delle volte non contemplati, perché «quando si comincia ad immaginare in se stessi la vita senza quel partner, quindi a sperimentarla, ci si accorge di qualcosa che prima non si riusciva a vedere. Trovata la risposta, si ha già la strada da percorrere. Nel dialogo strategico–spiega–sono le domande che fanno le risposte. Il problema si pone se la risposta è: non si può fare a meno di quella persona. Ma in tal caso, è necessario evitare di fare la figura della vittima o del vendicatore: se non si può farne a meno, la risposta è chiara e si agisce di conseguenza, senza tornare indietro».

Parlare di traumi sentimentali è qualcosa di viscerale, è parlare del poter fare a meno di qualcuno o no. Da cui il percorso successivo. «Abbiamo bisogno di riduttori di complessità, ossia di stratagemmi che ci consentano di risolvere la complessità attraverso soluzioni semplici. È l’uovo di Colombo, sia pure sofferto: una sofferenza che non è attraversata si trasforma in una lenta agonia, la quale è ben peggiore. Il mio amico Emil Cioran diceva: il coraggio che manca ai più è il coraggio di soffrire per cessare di soffrire».

Il terapeuta potrà accompagnare la persona che ha subito la perdita attraverso le cinque fasi di elaborazione del lutto descritte da Elisabeth Kübler-Ross: rifiuto («non può essere successo»), patteggiamento («torniamo insieme», «faccio tutto quello che non ho mai fatto prima», «prometto»), rabbia («mi ha ingannato»), depressione («ho sbagliato tutto», «non c’è futuro»), infine accettazione.

Nelle relazioni con un altro significativo–spiega la Martini– è necessario mettere in conto il tradimento delle aspettative fantasmatiche di entrambi i partner, di ciò che ciascuno di essi si attende dall’altro ma, non di inferiore rilevanza, da se stesso in relazione con l’altro: ciò fa parte delle nostre possibilità di crescere nella conoscenza di noi stessi e di chi è con noi. La fiducia infantile rischia di divenire una prigione. Accade che il mondo del tradito perde tutti i suoi significati e che entrambi i partner devono riorientarsi.

Il tradito vuole sapere tutto, il traditore si sottopone all’interrogatorio».

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